“La cultura è fatta di sorprese, cioè di quello che prima non si sapeva, e bisogna essere pronti a riceverle e non a rifiutarle per paura che crolli il nostro castello che ci siamo costruiti”. B. Munari (Prelibri)
Covid-19 ha portato la scuola italiana ad adottare, in modo diffuso e un po’ destrutturato, la Didattica a Distanza (DaD). Impresa non facile, ricca di potenzialità – la personalizzazione dei percorsi apprenditivi per esempio – e ostacolata da problematiche non risolvibili online – bisogni educativi speciali, vecchi e nuovi, che non trovano risposta nella relazione a distanza-.
Il dibattito pubblico ha evidenziato come la DaD si riduca spesso ad un’esportazione online della lezione frontale, animata da picchi di comicità e nervosismo dovuti agli strumenti e agli umori della rete:
“Mi vedete? Ci siete? Mi sentite?”
“Ti guardo e non ti vedo ti ascolto e non ti sento / Non chiedermi di crederti non lo farò”. CCCP- And the radio plays
(Già perché anche la fiducia è messa alla prova nell’emergenziale DaD).
L’esportazione online della lezione frontale è sicuramente un tema di riflessione. Il mio lavoro di tutor dell’apprendimento e una laurea in Discipline semiotiche mi hanno però portata a ragionare su un’altra pratica messa in risalto dalla DaD.
Quotidianamente io e i miei studenti entriamo in connessione, ci salutiamo e condividiamo cartelle, e-book, schermi, sorrisi e molti file. File di file. Materiali didattici accompagnati da una eterogeneità di estensioni che ne precisano la natura: MP3, JPEG, PDF, ecc.
L’estensione del file è importante: è un trailer, una stringata sintesi del canale sensoriale o via d’accesso alle informazioni che il docente ha scelto di privilegiare per far elaborare allo studente i contenuti proposti.
In queste settimane, gli insegnanti hanno arricchito le cartelle dei miei ragazzi di:
.MP3: audio (lunghi anche 40 minuti) privi in un primo momento di rimandi visivi e corredati successivamente di rinvii verbali a immagini raccolte in sottocartelle della cartella madre della lezione. (Sembra complicato perché lo è).
.JPEG: foto – a volte sfocate – di libri proposte come materiali per lo studio o come testi per la verifica. In quest’ultimo caso da alcuni è stata individuata come misura compensativa per studenti con DSA la metafoto didattica: una fotografia della fotografia sfocata che dovrebbe accrescere la leggibilità del testo grazie all’opzione ingrandimento offerta dallo schermo dello smartphone.
.MP4: video-lezioni registrate in cui, come dice un mio studente, “frazioni del corpo del prof.” (una volta l’occhio, l’altra il ciuffo) spiegano verbosamente concetti complessi rimandando per le immagini a documenti caricati in altre sottocartelle della cartella madre della lezione. (Se ti sembra meno difficile di prima hai un’ottima capacità adattiva).
Grandi assenti:
learning object.
Davanti a questa collezione di dati e di aneddoti, mi sono interrogata sul ruolo dato nell’apprendimento sia al linguaggio visivo e audiovisivo che all’integrazione tra forme testuali diverse.
Qual è insomma il ruolo dell’immagine nella società dell’immagine?
Non c’è dubbio che le immagini – ferme o in movimento – abbiano un ruolo fondamentale nei processi di lettura, di comprensione, di studio, di apprendimento.
Pensiamo ai cicli di affreschi di Giotto, ai disegni di Leonardo, alle carte geografiche, ai portolani, alle incisioni dell’Orbis Sensalium Pictus di Comenio (primo grande sussidiario della storia), al cinegiornale, al telegiornale, ai documentari e perché no ai video-tutorial.
Lonardo – Diagramma
Il linguaggio iconico ha potenzialità espressive ed euristiche chiare ad una società sempre più visuale e visualizzata, ma spesso sottovalutate dai designer dei processi di apprendimento: gli insegnanti.
A scuola i linguaggi visivo e audiovisivo sono spesso a supporto del verbale, raramente in paritario dialogo con esso. Prova ne è la scelta di dividere, anziché integrare, i diversi tipi di testo, attribuendo centralità al linguaggio verbale, sezionando l’esperienza sensibile degli studenti (vista e udito ricevono input diversi che vengono cognitivamente ricomposti in un unicum) e aumentando carico cognitivo estraneo e curva di apprendimento.
Il dominio del verbale sull’iconico è talmente radicato a scuola che la maggior parte degli alunni, anche in presenza di un disturbo specifico di lettura, studia concentrandosi sul testo scritto e tralascia le immagini. L’accesso al senso sarebbe facilitato se si iniziasse a studiare facendo una lettura rapida basata sulla decodifica di immagini e titoli, seguita da previsioni sul contenuto trattato e da una lettura approfondita del testo, ma quasi nessuno insegna agli studenti a muoversi così sul libro. Quasi nessuno insegna a integrare strategie di lettura e linguaggi per accrescere comprensione e capacità inferenziale.
Fenomeno curioso se pensiamo che diventiamo lettori a partire dal dialogo tra immagini e parole proposto ad esempio dagli albi illustrati. È grazie alla lettura delle immagini che, da piccoli ma non solo, arriviamo a una comprensione piena delle parole, della loro grammatica e dei loro effetti di senso. Ed è sempre da questo dialogo che prendono corpo – per dirla con Barthes – il nostro deja vu e deja lu, un’enciclopedia di quanto abbiamo visto e letto che ci permette nel tempo di trovare il senso in meccanismi narrativi sempre più complessi.
Bruno Munari
Eppure, usciti dalla prima infanzia, immersi nella società delle immagini, veniamo colpiti da una sorta di paradossale analfabetismo iconico scolastico.
A scuola – fuori è davvero raro – insegnanti e studenti comunicano con foto sfocate, illustrazioni poco leggibili, testi verbali, frazioni di corpo che stanno per l’intero a discapito della credibilità dell’intervento personale e dell’attenzione dell’interlocutore. Il tutto in un’incomprensibile dissociazione tra linguaggi.
Non è un’accusa: l’insegnamento richiede una sperimentazione continua all’interno di contesti eterogenei e complessi, in cui le variabili sono infinite e l’individuazione di soluzioni richiede tempo e sistematicità.
Un neologismo, però, credo possa indicarci la via: semplessità.
La semplessità – spiega Alain Berthoz professore emerito di fisiologia
della percezione e dell’azione al Collège de France – è saper vedere un sistema complesso in modo semplice grazie ad un’operazione di decodifica e interpretazione. Semplessità significa rendere decifrabile la complessità rispondendo in modo rapido ed adattivo a situazioni problematiche.
Questo penso sia un buon proposito a cui tendere.
Come fare però?
Federica Ciotti per Social Books
Sicuramente adottando una progettazione sistemica dell’intervento didattico, in cui tutte le parti concorrono allo stesso obiettivo individuando strumenti e metodologie condivise per creare un’esperienza di apprendimento fluida e significativa. Evitiamo ad esempio di adottare, in una stessa classe, piattaforme differenti e coinvolgiamo nella co-progettazione dell’intervento l’intera comunità educante. Integriamo competenze e risorse per riuscire a includere tutti.
Inoltre credo – e qui ritorno al punto – che la complessità possa essere resa più decifrabile, sempre ma in particolare oggi, dal bilanciamento e dall’integrazione tra i diversi linguaggi.
Gli input multimediali portano alla costruzione di modelli visivi, uditivi – eventualmente anche olfattivi, gustativi, tattili – correlati tra loro dando al cervello la possibilità di una doppia (o magari pluri) codifica (cfr. Paivio).
Il multimedia learning naturalmente facilita ma non garantisce l’apprendimento significativo, che richiede una sorta di estetica della ricezione cognitiva da parte dello studente fatta di attivazione, capacità inferenziale e critica.
Buona prassi sarebbe inoltre progettare learning object – soprattutto in questa fase dedicata alla DaD – caratterizzati oltre che da autoconsistenza, reperibilità, riusabilità e interoperabilità, daiprincipi individuati da R.E. Mayer:
modalità: distribuzione equilibrata delle informazioni tra i diversi canali sensoriali.
coerenza: esclusione di stimoli estranei che rendono inutilmente difficile la decodifica del testo.
contiguità spaziale: integrazione fisica dei diversi codici (es. testo scritto e testo visivo).
contiguità temporale: sincronicità dei differenti input (video e audio, immagine e testo, immagine e audio…).
I vantaggi di questa ergonomia dei learning object sono molteplici: l’evitamento della divisione dell’attenzione (split attention), la giusta modulazione del carico cognitivo e della curva di apprendimento, l’inclusione di studenti con difficoltà o disturbi specifici dell’apprendimento.
Bilanciare e integrare il rapporto tra i linguaggi, ridare spazio all’iconico, progettare esperienze di apprendimento differenti dalla sola lezione frontale e verbale potrebbero essere ora risposte adattive alla complessità della DaD e in futuro il punto di ripresa di una collettiva azione di educazione allo sguardo, che parte dalla scuola dell’infanzia e perdura nei cicli successivi nella convinzione che l’iconico abbia, oltre a un’efficacia comunicativa, anche un’autonomia semantica che accresce la significazione del verbale e dischiude pluriversi interpretativi irraggiungibili a parole.
Del resto, come diceva Alice, “a cosa serve un libro senza figure né dialoghi?”. (Alice nel paese delle meraviglie, L. Carroll).
John Tenniel
PER APPROFONDIRE
- Berthoz A., La semplessità, Torino, Codice Edizioni, 2019.
- CCCP fedeli alla linea, And the radio plays in Canzoni preghiere danze del II millennio – Sezione Europa, Virgin Dischi, 1989.
- Hamelin, Ad occhi aperti. Leggere l’albo illustrato, Roma, Donzelli Editore, 2012.
- Mancini C., Carico cognitivo – presentazione. 2016
- Mayer R.E., Multimedia Learning, New York: Cambridge University Press, 2001
- Paivio A., Dual Coding Theory: Retrospect and current status. Canadian Journal of Psychology. Online edition, 1991
- Sibilio M., La Didattica Semplessa, Napoli, Liguori Editore, 2014
- Terrusi M., Albi illustrati. Leggere, guardare, nominare il mondo nei libri per l’infanzia, Roma, Carocci, 2012