“Non sei tenuto a venerare la tua famiglia, non sei tenuto a venerare il tuo paese, non sei tenuto a venerare il posto dove vivi, ma devi sapere che li hai, devi sapere che sei parte di loro”.
Con questa frase di Philip Roth scritta sul retro di una cartolina, quindici anni fa, con in mezzo un oceano tra me e casa, mi interrogavo, forse per la prima volta, sul senso che aveva la famiglia per me.
Aprendo il dizionario della lingua italiana, alla voce “famiglia” troviamo:
“La famiglia è un nucleo sociale rappresentato da due o più individui che vivono nella stessa abitazione e, di norma, sono legati tra loro da rapporti di parentela o di affinità”.
Una definizione scarna di tutti i significati emotivi che la parola racchiude, “scarica” delle sfaccettate forme che essa assume nel mondo di ogni suo singolo componente. Ho sempre pensato che la famiglia rappresenti l’unità centrale del nostro vivere in società e la realtà che, da un punto di vista di crescita individuale, è e si mantiene per tutto il corso di una vita, in maniera reale o fantasmatica, serena o controversa, fondante del nostro essere.
“Il senso di identità di ciascun individuo è influenzato dal senso di appartenere a una specifica famiglia” (S. Minuchin)
Ognuno di noi, in modo più o meno consapevole, affonda le radici del proprio essere nel senso di appartenenza alla famiglia, alla propria storia di generazioni. Sono nata in una famiglia che vive in una forte e consistente rete di famiglie, una realtà imprescindibile che non ho scelto ma mi sono ritrovata a vivere. Credo sia anche per questo che il concetto di famiglia ha sempre avuto per me un valore forte, particolare. Forse per questa mia inconsueta esperienza, la famiglia, prima come vissuto personale poi come realtà che andava molto oltre me stessa e la mia esperienza, mi ha sempre affascinato. Emozioni intense, spesso contrastanti, tengono legate tra loro persone che crescono e si definiscono nel loro stare assieme. Dopo la laurea in psicologia, quindi, ho scelto una scuola di specializzazione che si occupasse di famiglia proprio per questa “bizzarra” idea che, in fin dei conti, quello che succede a un’unità del sistema, coinvolga e si esprima per tutti quanti.
Ho iniziato il mio lavoro con Archilabò ormai cinque anni fa. Negli anni ho sempre condiviso con i miei colleghi un’idea: quella che la famiglia, con qualsiasi coniugazione la si voglia intendere, è un valore aggiunto sul quale contare per l’efficacia degli interventi e, allo stesso tempo, una struttura di affetti e relazioni fragile, da sostenere. Su questo principio si costruisce la nostra realtà professionale, Il Centro A.m.p.i.a, un luogo di lavoro in cui la notizia di una nuova gravidanza è un momento da celebrare, un’esperienza che genera valore, per tutti. La stessa attenzione la spendiamo nel rapporto con i bambini e ragazzi dei quali quotidianamente ci occupiamo, consapevoli che prenderci cura di loro significa dare spessore e valore al loro contesto di crescita.
Partendo da questo presupposto nasce la volontà di offrire risposte sempre più ampie e consistenti a tutto il contesto, a tutta la famiglia. In maniera sempre più forte ragioniamo in un’ottica allargata che sia in grado di prendersi carico di un sistema. Ogni sistema ha un proprio funzionamento: il nostro compito è offrire possibilità che valorizzino e sostengano le parti, rispettando le differenti identità che ne fanno parte.
Sostenere significa considerare ogni specifica famiglia per le proprie caratteristiche e particolarità, sapere che i ragazzi con i quali entriamo in contatto ogni giorno hanno dei mondi attorno a loro che ne determinano le identità e vanno considerati per la loro importanza e competenza. Da qui nasce l’idea di dar vita a un nuovo servizio all’interno della cooperativa, uno spazio che si occupi nello specifico di dar voce a quegli adulti che si trovano a svolgere la funzione genitoriale.
La genitorialità è un processo che porta a divenire genitori da un punto di vista psichico (Houzel D.).